13 – Il Capitalismo monastico: prodromo di quello realizzatosi nell’Italia dei Comuni
Sempre più spesso sentiamo associare la parola “monachesimo” agli avvenimenti più importanti della storia europea. Ebbene, è proprio così! Non ultimo anche il capitalismo. Fu proprio nelle grandi proprietà monastiche che germogliarono i primi semi di un nuovo modo di concepire l’uomo e la vita. Non più sudditi, ma uomini liberi. Partirono proprio da qui, dalla volontà dei primi monaci di affrancarsi dal vivere solo di “offerte”, la prima idea e la prima realizzazione del capitalismo europeo. Non più economie di sussistenza, ma realtà fortemente produttive. Inizialmente, la prima attività economica monastica fu, ovviamente, legata alla terra; essa, però, non era più solo vista come il coltivare la terra e raccoglierne i frutti per realizzare i bisogni primari della comunità monastica, bensì come capacità di aumentare la resa delle terre coltivate, utilizzando il surplus come base di partenza per scambi commerciali. Un tale modo di concepire il lavoro e la vita diventò un volano per la nascita delle prime imprese capitalistiche private che continuarono ciò che i monaci avevano iniziato, affiancando alla produzione e al commercio, anche l’attività bancaria, basata sul prestito. Parte da qui la grande epopea del capitalismo europeo ed italiano, tanto che nel XIV secolo, la potenza commerciale italiana copriva dall’Inghilterra fino alla Cina. Era qualcosa che il mondo non aveva mai visto prima. Ma perché tutta questa “potenza”? Analizzare le cause legate allo sviluppo del capitalismo nel nostro Paese ci pone di fronte a due grandi forze generatrici: la prima dovuta proprio alla conformazione geografica e sociale dell’Italia di allora e la seconda che vede nel messaggio salvifico cristiano, la crescita dell’ottimismo e di investimenti di lunga durata. Tutto il Settentrione d’Italia, molto più vicino al resto d’Europa rispetto alle regioni del centro e del sud, si avvantaggiò della sua posizione privilegiata per il commercio via terra. Inoltre, il fatto che non vi fossero regni e sudditi, ma veri e propri Comuni dove alla gerarchia verticale si sostituì quella orizzontale, contribuì ad incoraggiare il concetto di libertà su cui poggia il capitalismo. Nel Meridione il potente regno dei normanni e le forze feudali soffocarono sul nascere le autonomie locali. Nel nord Italia, invece, si affermò la figura del mercante-banchiere che ruppe le vecchie barriere del feudalesimo ed essendo padrone di ingenti capitali fece sorgere scuole professionali per i giovani. Incominciarono a essere utilizzati gli assegni, la cambiale, la partita doppia e nacquero le prime società per azioni. Il personale doveva essere via via sempre più specializzato, in particolare coloro che avrebbero dovuto “far quadrare i conti”. Ed ecco che le migliori menti che avevano studiato alle scuole d’abaco, cominciarono ad essere le più richieste: ragazzi che miglioravano la propria capacità di calcolo grazie all’uso di tavole, studiavano la contabilità semplice e l’interesse composto. Tutto ciò avveniva in quel Medioevo bistrattato da una storiografia miope, sbugiardata, però, dagli studi di Armando Sapori, storico dell’economia, che dopo aver controllato tutti i calcoli dei registri contabili ritrovati, non ha potuto evidenziare nemmeno un errore. Ecco qual è stata la più grande eredità del Medioevo: aver fornito una spina dorsale agli uomini e alle città di quel tempo, aver mostrato loro un orizzonte che fosse più importante della loro stessa vita.
Yuri Buono