2 – La beata Elena Guerra (1835-1914)

Maria Elena Antonietta Guerra, familiarmente solo «Elena», nacque a Lucca, allora capitale del ducato omonimo, il 23 giugno 1835. Il padre, Antonio Guerra, era il quarto dei cinque figli, fra cui tre sacerdoti, di Bartolomeo Guerra, che, nell’ultimo decennio del secolo precedente, aveva ricevuto dagli Anziani dell’allora esistente Repubblica aristocratica, insieme col padre Francesco e il nonno Bartolomeo, già defunto, una «patente di nobiltà personale», che perse ogni valore «pubblico» pochi anni dopo, quando, agli inizi del 1799, i rivoluzionari francesi invasero la Repubblica di Lucca, violandone la neutralità. A differenza di altri patrizi, i quali — specie dopo il 1801, quando il Primo Console di Francia Napoleone Bonaparte, divenuto ormai padrone anche dell’Italia, cominciò a fare di tutto per mostrarsi «uomo d’ordine» — cercavano un modus vivendi col nuovo regime, Bartolomeo si schierò fra gli «irriducibili», e, evidentemente nel tentativo di capire che cosa stesse accadendo, si procurò, fra l’altro, una traduzione italiana delle Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme dell’ex-gesuita Augustin Barruel, stampata clandestinamente nel 1802. La madre, Faustina Franceschi, era figlia di Sebastiano Franceschi, un medico, professore nella piccola università locale, che aveva avuto un ruolo nell’introduzione in Lucchesia del vaccino antivaioloso di Edward Jenner, e di Felice Belluomini, la quale apparteneva, invece, a una famiglia filofrancese, di cui faceva parte anche un prete «collaborazionista», don Tommaso Belluomini, il cui giansenismo può avere avuto un ruolo nella formazione religiosa di Faustina, donna molto pia, ma anche «rigidamente formalista»; al punto che si dimostrerà, almeno inizialmente, incapace di comprendere la vocazione della figlia, in qualche modo «singolare» per la mentalità, specialmente lucchese, dell’epoca. Dal matrimonio di Antonio e Faustina nacquero sei figli, tre dei quali, Almerico Guglielmo, Cleria e Maria Anna, non giunsero all’età adulta.

La nascita di Elena avvenne in circostanze, in qualche modo eccezionali. La madre, appena al sesto mese di gravidanza, subì una brutta caduta, che le causò il distacco della placenta ed ebbe come conseguenza il parto prematuro.  Sulle circostanze della caduta esistono due diverse versioni. Un breve scritto di p. Camillo Giovannini, dei Chierici Regolari della Madre di Dio, composto poco dopo la morte di Elena e ripubblicato, in versione abbastanza ampliata, nel centenario della nascita, parla di un incidente avvenuto nel viaggio in carrozza dalla villa di Camigliano all’abitazione di via della Zecca; al contrario, la prima biografia «estesa» dell’allora Serva di Dio Elena Guerra, scritta due anni dopo da Don Pirro Scavizzi, parla di una caduta dalle scale d’una casa vicina, dove Faustina s’era recata a trovare un’amica ammalata. A favore della seconda versione stanno due motivi: primo, la memoria costante, tramandata in casa Guerra di generazione in generazione; secondo, il tono, tipico di un’agiografia ancora «ottocentesca», dei libretti del p. Giovannini; il quale, pur essendo certamente a conoscenza, come postulatore della causa di beatificazione, delle difficoltà incontrate da Elena anche da parte della madre, le taceva, «idealizzando» enormemente la figura di Faustina, così che potrebbe averla voluta «assolvere» da un comportamento, che, forse, in quegli anni avrebbe potuto essere giudicato «imprudente». In realtà, la madre di Elena era la sorella di Giacomo Franceschi, titolare, nel «Regio Liceo», come durante il ducato borbonico era chiamata l’ancora esistente università lucchese, della cattedra di «Clinica Medica e Medicina Pratica», ossia di medicina generale. Era, quindi, seguita dai migliori medici della città, così che, se le avevano permesso di andare a trovare l’amica malata, significa che l’esercizio fisico era consigliato alle gestanti anche dai medici di allora. Insomma, potremmo tranquillamente «archiviare» la storia dell’incidente con la carrozza, se a volte non ricomparisse in qualche «sunto biografico», magari stampato sul retro d’un «santino». La bambina, sulla cui possibilità di sopravvivenza i medici, primo fra tutti lo zio materno, avevano seri dubbi, fu battezzata sùbito, con i nomi di Maria Elena Antonietta, secondo un «registro familiare delle nascite» conservato ancor oggi dalla famiglia Guerra, ovvero Maria Elena Antonia, secondo l’archivio parrocchiale di S. Frediano, la chiesa in cui fu celebrato il battesimo. Il nome con cui la futura beata fu nota per tutta la vita fu soltanto Elena.

L’infanzia e l’adolescenza di Elena si svolsero non diversamente da quella delle «signorine di buona famiglia» dell’epoca: Cresima nel 1843, Prima Comunione l’anno successivo. Dopo la prima comunione, Elena si pose il problema della comunione frequente, all’epoca poco «incoraggiata» da un clero influenzato da pregiudizi di origine giansenista. Per esempio, per la comunione a intervalli regolari, come mensili o settimanali, era necessario un «permesso» da parte del parroco. La comunione quotidiana era, di fatto, impossibile, almeno per i laici. Ma Elena desiderava fortemente ricevere Gesù proprio tutti i giorni, e, a questo scopo, escogitò uno stratagemma: chiese al parroco di S. Leonardo in Borghi la comunione settimanale, a distanze di tempo sufficienti a far dimenticare al parroco d’averla data già per un giorno diverso, fino a coprire tutti e sette i giorni della settimana. Quando il parroco se ne accorse, dopo la fine della Messa chiamò Elena in sagrestia, e le chiese, con una certa severità, chi le avesse concesso il permesso. La risposta della giovinetta fu disarmante: «Lei, monsignore». Ed elencò le sette date, in cui aveva ottenuto il permesso per ciascun giorno. Il prete non poté venir meno alla parola data, e confermò il permesso.

Per quel che riguarda l’istruzione, il costume dell’epoca era che i giovani di una famiglia «d’alto rango», come i Guerra, non frequentassero la scuola pubblica, ma fossero istruiti in casa da insegnanti scelti dai genitori. Anche il fratello maggiore di Elena, il futuro canonico Almerico, frequentava allo stesso modo il seminario minore, ovviamente col placet dell’Arcivescovo Mons. Giovan Domenico Stefanelli. Antonio, che aveva notato per tempo l’intelligenza della figlia, avrebbe voluto darle anche un’istruzione di tipo classico e scientifico; ma Faustina — che, come madre, aveva, tradizionalmente, il «potere decisionale» sull’educazione dei figli — fu irremovibile. A suo dire, simili studi non erano adatti a una donna; bastava, per la figlia, una buona conoscenza della lingua italiana, di una lingua straniera, come il francese, della musica e, soprattutto, dell’«economia domestica», necessaria a governare la casa, una volta che fosse, anche lei, moglie e madre di famiglia. Ma Elena aveva altri progetti, per il suo futuro, anche se, ovviamente, non ancora quelli che avrebbe realizzato in età adulta; così, ricorse a un geniale stratagemma. Si dedicava alle sue «attività donnesche», come il disegno, il ricamo, l’uncinetto, la composizione di trine col «tombolo», in una stanza adiacente a quella in cui il fratello Almerico riceveva le sue lezioni di latino, e ascoltava. Riuscì così a imparare i primi rudimenti della lingua latina; ma presto si accorse che, senza qualche esercizio, non avrebbe potuto raggiungere lo scopo che si prefiggeva, ossia la capacità di leggere, nel testo originale, la Vulgata e le opere dei Padri della Chiesa Latina e dei Dottori della Scolastica e della Contro-Riforma. Come poteva esercitarsi? I libri del fratello erano, in qualche modo, a portata di mano, essendo lasciati nella stanza in cui Almerico riceveva le lezioni, e non riposti nella biblioteca, situata nel piano ammezzato sottostante; ma, in ogni caso, le uniche ore, in cui Elena poteva usarli per degli esercizi, erano quelle notturne. E, allora, come fare per non consumare la candela, cosa che avrebbe fatto scoprire il suo sotterfugio? Elena escogitò un nuovo stratagemma: quando mangiava le noci, anziché schiacciarne il guscio, lo divideva, con un po’ di pazienza, in due metà esatte, che poi metteva «furtivamente» da parte. Poi, di notte, li riempiva d’olio — il «lampante» era sempre disponibile in abbondanza, per il tabernacolo della cappellina domestica — e ci infilava uno «stoppino» fatto con fili da cucito; così, al chiarore di queste «lucerne» improvvisate, arrivò ad ottenere lo scopo prefissosi.

Frattanto, stavano «maturando» avvenimenti, che avrebbero segnato permanentemente la vita dell’Italia e dell’Europa: quei rivolgimenti rivoluzionari, che avrebbero avuto il culmine nel 1848. Il 4 ottobre 1847 il duca di Lucca Carlo Lodovico di Borbone-Parma, spaventato da agitazioni filo-liberali avvenute in città, cedette anticipatamente il Ducato al granduca di Toscana, mettendo così fine a un’indipendenza che durava dall’età comunale. Nello stesso anno la famiglia Guerra ricevette il permesso di ottemperare al precetto festivo, «ascoltando» la Santa Messa nella cappella domestica; permesso concesso dal vicario capitolare, perché l’archidiocesi era vacante a causa dell’improvvisa morte, l’8 luglio 1846, dopo poco più di un anno d’episcopato, dell’arcivescovo Pietro Pera, e solo nel 1849, dopo la fine dei rivolgimenti «quarantotteschi», fu possibile la nomina del nuovo arcivescovo Giulio Arrigoni. È interessante il motivo di tale concessione: i Guerra erano una famiglia «che viveva al modo della nobiltà», un ceto sociale, al quale i tempi cominciavano ad essere sempre meno favorevoli.

Negli anni immediatamente successivi Elena dovette ritirarsi nella villa di Camigliano, a causa d’una malattia, conseguenza, forse, della sua nascita prematura; così, ne approfittò per dedicarsi all’istruzione religiosa delle ragazze di campagna, all’epoca piuttosto carente. Frutto di questa sua esperienza sarà un opuscolo, La giornata della pia contadinella, più volte ristampato negli anni successivi. Già nell’adolescenza, comunque, aveva organizzato, con le sue coetanee, un «gioco», chiamato «Il Giardinetto di Maria»: ad ogni ragazzina era assegnato un fiore, o anche una pianta del giardino, e ad ognun fiore o pianta era associata una virtù o una pratica devozionale mensile da praticare. Da questo «gioco» Elena trasse poi un opuscolo con lo stesso titolo. Recentemente, nel calendario del 2015, le Oblate dello Spirito Santo — la congregazione di suore più tardi fondata da Elena — ne hanno ripubblicati dodici, uno per ciascun mese dell’anno, associato all’immagine del fiore o della pianta corrispondente.

Fra la primavera e l’estate del 1854 scoppiò in Lucchesia un’epidemia di colera, particolarmente intensa nella zona di Porcari, non lontana da Camigliano. Elena, non ancora ventenne, si recò spesso a curare e ad assistere gli ammalati, «dando una mano» ad un’altra futura beata, Maria Domenica Brun Barbantini (1789-1868), che, con le sue consorelle della nascente Congregazione delle Ministre degli Infermi, assisteva gli stessi malati, in modo, forse, meglio organizzato. Con l’avvicinarsi dell’inverno l’epidemia sembrò attenuarsi, ma riprese in modo ancor più virulento l’anno successivo, col ritorno della stagione calda. Per la carità esercitata in queste occasioni nei confronti della popolazione, specie delle persone più bisognose, Elena si meritò un bellissimo appellativo: la signorina santa.

Intanto, però, la salute di Elena peggiorava, e, poco dopo un pellegrinaggio a Roma, in compagnia del padre, nel 1856, si trovò immobilizzata, dal 1857 al 1864, nella sua camera; fu un periodo di riflessione, che, alla fine, giovò alla sua maturazione spirituale. E proprio nel 1864 Elena, una volta rimessasi in salute, iniziò a impegnarsi in attività «esterne», le quali avrebbero infine portato, dopo non pochi tentativi senza successo, alla nascita della congregazione, che venera la beata come propria fondatrice. La prima di queste attività fu la Pia unione dell’Amicizia Spirituale sotto l’invocazione di Maria SS.ma del Bello Amore, più brevemente «Le Amiche Spirituali», unione, che, nell’agosto del 1864, ottenne dal Papa, il beato Pio IX, la Benedizione Apostolica. Fece séguito, nel marzo del 1866, l’iscrizione fra le Dame di Carità, per l’assistenza ai poveri; il 3 maggio dell’anno seguente Elena riceveva lo Scapolare dell’Immacolata, e l’8 settembre si iscriveva alla Pia Unione delle Figlie di Maria, di cui divenne ben presto dirigente responsabile per Lucca. Troppi impegni contemporaneamente? Il fatto è che Elena riusciva ad assolverli tutti, ed anche molto bene.

Nell’aprile del 1870 Elena si recò nuovamente in pellegrinaggio a Roma, dove era in corso il Concilio Vaticano I. Durante il pellegrinaggio fu segnata profondamente dalla visita alle Catacombe, dalla Messa pasquale celebrata dal Papa in S. Pietro il 17 aprile, e, infine, il 24, domenica in  Albis, dall’assistenza, in una delle tribune riservate ai fedeli nella basilica vaticana, alla Terza Sessione pubblica del Concilio, in cui fu promulgata solennemente la Costituzione Dogmatica sulla Fede «Dei Filius». Costituzione, la quale — contro ogni «razionalismo» ed ogni «fideismo», che, da posizioni opposte, hanno sempre «cercato di mettere in contrasto fra di loro» fede e ragione — afferma chiaramente: «La medesima Santa Madre Chiesa professa ed insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza al lume naturale della ragione umana attraverso le cose create; infatti, le cose invisibili di Lui vengono conosciute dall’intelligenza della creatura umana attraverso le cose che furono fatte (Rm 1,20)». Già all’apertura del Vaticano I, l’8 dicembre 1869, Elena aveva iniziato, con le Amiche Spirituali, a pregare quotidianamente per la felice riuscita del Concilio; ma il 19 luglio 1970 lo scoppio della guerra franco-prussiana mise in crisi il concilio, a causa del forzato rientro in diocesi dei vescovi francesi e tedeschi. L’approvazione del dogma dell’infallibilità pontificia era avvenuta, il giorno prima, a conclusione di una lunga discussione, durante la quale diversi vescovi l’avevano ritenuta «inopportuna», con motivazioni spesso diverse fra loro. Forse fu questo uno dei motivi, che avevano indotto Elena, il 23 giugno, ad offrirsi «vittima d’amore e d’espiazione» per il Papa; offerta rinnovata, con maggiore solennità, il 20 settembre dello stesso 1870, quando le cannonate di Porta Pia interruppero definitivamente quel che restava del Concilio Vaticano I; che non fu più riaperto, né dal beato Pio IX, né dai suoi successori fino al venerabile Pio XII, finché il Papa successivo, S. Giovanni XXIII, preferì indire il Concilio Vaticano II.  L’offerta di sé a Dio come vittima per il Papa ricorre con molta frequenza nei diari di Elena; tale offerta è stata certamente uno dei temi fondanti della sua spiritualità, anche negli anni successivi.

Nel 1871 Elena diede inizio a una serie d’iniziative, che avrebbero avuto, come esito finale, la fondazione della Congregazione delle Oblate dello Spirito Santo. Inizialmente ritenne che la sua vocazione fosse la vita contemplativa; così, il 27 aprile di quell’anno fondò, con un gruppo di Amiche Spirituali e di Figlie di Maria, le «Future Adoratrici Perpetue di Gesù Sacramentato»; iniziativa, che, però, durò meno di due anni, non ostante l’incoraggiamento da parte di diversi sacerdoti, fra cui l’abate spezzino Domenico Battolla, che fece avere loro, il 16 luglio 1872, un autografo del Papa, il beato Pio IX, con la benedizione apostolica. Ma Elena e le sue figlie spirituali, scoprirono, già nello stesso anno, che la loro vocazione era, piuttosto, quella suggerita dal canonico lucchese mons. Nicola Della Santa, parroco della Cattedrale: la vita attiva e l’apostolato. Così, il 6 dicembre, Elena diede vita ad una vera comunità, posta sotto il patrocinio della Vergine del Cenacolo e dei santi Giuseppe e Zita, e dedita, principalmente, all’educazione cristiana della gioventù femminile; in particolare, di quelle che, nel linguaggio dell’epoca, erano chiamate «le signorine di buona famiglia». In altre parole, le figlie di quella classe dirigente «ottocentesca», in cui Elena era nata e cresciuta, e che aveva visto, nel corso degli anni, allontanarsi sempre di più dalla fede, e perdersi dietro i cosiddetti «ideali risorgimentali». Insomma, se, come dice il proverbio, «il pesce comincia a puzzare dalla testa», occorre prendersi cura proprio di questa: se si riesce a formare cristianamente quelle che saranno le mogli e, più tardi, le madri dei membri della futura classe dirigente, questa sarà, se non proprio «più cristiana», un po’ meno «laicista e anticlericale» di quella presente. Questa «peculiarità» della scuola ricevette anche l’appoggio di S. Giovanni Bosco, in un colloquio che ebbe con Elena durante una sua breve sosta a Lucca. La scuola iniziò le lezioni, in una casa presa in affitto in via Sant’Ansano, oggi Galli Tassi, il 9 dicembre 1872. Quest’attività incontrò sùbito delle difficoltà; tralasciando tutte quelle personali, come la morte del padre di Elena il 20 maggio 1875, la scuola rischiava addirittura la chiusura da parte delle autorità, perché alcune insegnanti, Elena per prima, erano prive del diploma di maestra elementare. La soluzione di questo problema arrivò da parte dell’abate Battolla, che scovò un decreto ministeriale, il quale autorizzava le «scuole paterne», in cui non era richiesto il titolo di studio, purché i genitori garantissero, di propria responsabilità, l’idoneità all’insegnamento di chi svolgeva le lezioni. Ben presto — superate altre difficoltà, continuamente frapposte dalla politica e dalla cultura anti-cattoliche allora dominanti — l’aumento delle allieve rese necessario trasferire la scuola in una sede più ampia; così, nel 1874, Elena e le compagne presero in affitto il palazzo Compagni, in via Fillungo. Nello stesso periodo Elena ottenne, dal suo direttore spirituale, il Decano di S. Michele, mons. Eugenio Nannini, il permesso di abbandonare la famiglia, e di stabilire la sua residenza nella casa; la comunità delle insegnanti restava, però, una di donne laiche, senza né abito «religioso», né voti. Questa decisione di Elena non fu bene accolta dalla madre, che, in quello che potremmo chiamare «uno scatto d’ira», stilò un «testamento olografo», ossia scritto di suo pugno, in cui la «diseredava» del proprio patrimonio personale, lasciandole soltanto la «parte legittima» prescritta dalla legge; lo chiuse poi, debitamente sigillato, in un cassetto, dove rimase, dimenticato ormai anche dall’autrice, negli anni successivi.

In realtà, se Elena si era resa indipendente dalla famiglia, non l’aveva certo dimenticata. Nel 1877, il fratello minore di Elena, Guido, rimasto vedovo dopo un primo matrimonio tutt’altro che felice, stava per risposarsi. Elena scrisse, in quell’occasione, una bellissima lettera alla futura cognata, Emilia Martinucci, che è quasi un brevissimo trattato sul significato cristiano del sacramento matrimoniale.

Frattanto, in Elena e nelle sue consorelle cresceva il desiderio di «regolarizzare» la comunità, trasformandola in una vera congregazione religiosa. Così, nell’agosto del 1880, si recarono in visita all’arcivescovo, Mons. Nicola Ghilardi, per chiedergli che concedesse loro i voti e l’abito; il presule subordinò la concessione alla fine di una collocazione precaria, come era di per sé una casa in affitto, mediante l’acquisto di una sede in proprietà. La condizione posta dall’arcivescovo mise fortemente in crisi Elena, perché non aveva la disponibilità di beni propri: infatti, anche se l’eredità paterna non era stata «intaccata» dal testamento di Faustina, questa ne conservava l’usufrutto, potenzialmente per tutto il resto della sua vita, che, fra l’altro, fu anche lunghissima. Ma due anni dopo la soluzione arrivò, inaspettata, dalla madre stessa: Faustina decise di dividere anticipatamente tra i figli l’eredità del marito defunto. La decisione, molto probabilmente, era stata sollecitata dai due figli maschi. Il maggiore, il canonico Almerico, aveva bisogno dell’indipendenza economica per gestire al meglio una sua iniziativa caritatevole, un convitto gratuito fondato da lui nel 1873, la Pia Casa dei Chierici Poveri, in cui ospitava quei seminaristi così poveri, da non poter neppure pagare la retta del seminario arcivescovile. Il minore, il notaio Guido, dopo il secondo matrimonio, ne aveva bisogno per le necessità crescenti di una famiglia sempre più numerosa. Elena ebbe così il denaro necessario all’acquisto del palazzo Ghivizzani, in piazza S. Agostino, di fronte alla chiesa dedicata al medesimo santo, chiesa allora sconsacrata e ridotta ad usi profani, con la sola eccezione della cappella laterale della Madonna del Sasso. Finalmente, il 4 novembre 1882, festa di S. Carlo Borromeo, l’arcivescovo Nicola Ghilardi impose l’abito religioso a Elena e a cinque sue consorelle: era nata la Congregazione delle Suore di Santa Zita, le «zitine», come furono chiamate dai lucchesi; nome rimasto, nel linguaggio popolare, anche dopo che le suore divennero, anche ufficialmente, le Oblate dello Spirito Santo.

La promozione della devozione allo Spirito Santo è, infatti, l’altro aspetto caratterizzante la spiritualità di Elena Guerra; anzi, oggi rimane, in Italia, l’attività principale delle sue figlie spirituali, perché, nel nostro paese, la maggior parte delle loro scuole — compresa, purtroppo, quella fondata a Lucca dalla beata — non riuscì a reggere a lungo la tempesta scatenata dal «Sessantotto», e l’ostilità burocratico-fiscale dei governi successivi verso la scuola paritaria.

Fra le allieve della scuola fondata da Elena ci fu anche, dal 1884 al 1893, la futura santa Gemma Galgani (1878-1903), forse la più grande mistica italiana della sua epoca. Poco tempo dopo, Gemma fece domanda di ammissione al «probandato», come era chiamato il periodo di formazione a cui erano sottoposte le future suore, ma la domanda fu respinta. Sul motivo di questa non ammissione c’è solo una testimonianza di una delle consorelle di Elena, suor Elisa Pieri, al processo di beatificazione, riguardo al comportamento di un’altra suora, Giulia Sestini, fortemente convinta, per non dire «fissata», che lo Spirito Santo stesse suscitando, nella congregazione, doni mistici eccezionali. Ecco la testimonianza di Suor Elisa: «In questo tempo si presentò Gemma Galgani, già stata nostra alunna, per essere da noi ammessa al probandato. Io ne ebbi piacere, ma poi dissi alla Madre: Che faremo? Se è un’anima straordinaria, Suor G.S. si metterà attorno anche a lei, e… miserie sopra miserie».

Intanto, suor Elena continuava a promuovere la devozione allo Spirito Santo; già nel 1865 aveva fatto stampare un opuscolo, intitolato «Pia unione di preghiere allo Spirito Santo», e lo aveva diffuso quanto più le era stato possibile, e nel 1890 pubblicò il testo di una novena, intitolata «Nuovo Cenacolo», più volte ristampata e tradotta in francese negli anni successivi. Finalmente, il 27 marzo 1894 un’edizione più elegante fu presentata al pontefice Leone XIII, che la gradì e la benedisse; così, la successiva ristampa del 1896 apparve corredata dalla benedizione papale. Dopo vari tentativi falliti, fra il 1895 e il 1896 riuscì ad inviare al Santo Padre alcune lettere, in cui lo sollecitava a promuovere il culto dello Spirito Santo. Alla prima fece séguito, da parte del Papa, il Breve Provida Matris Charitate, del 5 maggio 1895, che rese obbligatoria la celebrazione solenne della Novena di Pentecoste. Intanto, Elena dava vita anche ad una associazione laicale dedita al culto dello Spirito Santo, il «Cenacolo permanente», a cui aggiungeva un apposito strumento di preghiera, la «corona dello Spirito Santo». Questa corona è composta da sette «poste», in ognuna delle quali si chiede uno dei sette «doni dello Spirito Santo» (confr. Is. 11, 2-3 vulg.), e si ripete sette volte l’invocazione, richiesta ai fedeli dal Papa nel Breve del 1895, «Emitte Spiritum tuum et creabuntur: et renovabis faciem terrae»; che, dopotutto, altro non è che il versetto 30 del Salmo 103. Finalmente, dopo altre due lettere della futura beata — ma non dobbiamo trascurare l’efficacia «soprannaturale» delle continue preghiere allo Spirito Santo da parte di Elena e delle sue consorelle — Leone XIII emanò, il 9 maggio 1897, l’enciclica Divinum illud munus, definita, da p. Domenico Maria Abbrescia O.P., «il documento pontificio dottrinale più ricco sullo Spirito Santo». Il 18 ottobre dello stesso anno Elena fu ricevuta in udienza speciale dal Papa, a cui poté esporre, anche a voce, tutte le iniziative, che intendeva intraprendere, per risvegliare il più possibile nella Chiesa il culto dello Spirito Santo. In questa occasione Elena espose al Papa anche la sua intenzione di mutare il nome delle Suore di Santa Zita in Oblate dello Spirito Santo, ricevendo dal Pontefice una sorta di «approvazione verbale». Negli anni successivi Elena continuò la corrispondenza epistolare con Leone XIII, fino al 9 aprile 1903, pochi mesi prima della morte del Papa.

In quegli anni Elena si prodigò a diffondere il più possibile la conoscenza dell’enciclica; con tutte le sue forze, ma anche, e soprattutto, con il ricorso alla preghiera, all’adorazione eucaristica, e alla frequenza alla Santa Messa. Così, si mise alla ricerca di un mezzo, che le permettesse, in qualunque momento del giorno, di unirsi spiritualmente al Sacrificio Eucaristico. Il risultato fu l’invenzione, da parte di Elena nel 1898, dell’«Orologio Eucaristico», detto anche «orologio universale»: un orologio a pendolo, con al centro il quadrante «normale» delle ore del giorno, ed esternamente un altro, mobile, recante i fusi orari del globo terrestre, con indicati i paesi e le regioni corrispondenti. Ruotando opportunamente il secondo, in qualunque ora «nostra» era possibile vedere in quale altra parte del mondo era l’ora in cui, all’epoca, era celebrata normalmente la Santa Messa; in questo modo, era possibile unirsi spiritualmente alla celebrazione. Un altro dei «temi» delle preghiere di Elena e delle sue consorelle erano le Missioni ad gentes, che si concretizzavano, per quanto era possibile, nella raccolta, fra le famiglie delle studentesse e gli associati al Cenacolo permanente, di fondi, che inviava ai missionari, insieme a suoi scritti ed opuscoli, volti soprattutto a ravvivare in loro la devozione allo Spirito Santo, giustamente ritenuta da lei una condizione necessaria al successo della missione. Possiamo dire che la congregazione fondata da Elena era già allora «intenzionalmente missionaria», anche se le prime Oblate dello Spirito Santo partiranno per l’Iran solo il 10 agosto 1934. Oggi ci sono, forse, più «zitine» nel cosiddetto «Terzo Mondo», che nei paesi evangelizzati nei primi secoli dell’Era Cristiana.

Intanto, su di Elena cominciavano ad addensarsi delle metaforiche «nubi». D’altronde, se la santità è seguire, totalmente e incondizionatamente, Nostro Signore Gesù Cristo, coerenza vuole che lo si segua anche sul Golgota. Il 13 dicembre 1897 moriva, quasi novantenne, Faustina Franceschi, dopo un non breve periodo di salute precaria, in cui i momenti di lucidità si alternavano a sempre più frequenti e prolungate crisi di quella che i medici di allora chiamavano «demenza senile». Nel riordinare le sue cose, saltò fuori il testamento, in cui «decurtava» l’eredita di Elena; la quale accettò umilmente la cosa, senza neppure pensare di «impugnare» quel testamento, vecchio di più che un ventennio, con l’argomento, forse nemmeno «campato in aria», che solo il decadimento fisico e mentale aveva impedito alla madre di correggerlo o distruggerlo. A questa presunta «ingiustizia» volle ovviare il fratello Almerico, lasciando nel suo testamento alla sorella la somma, all’epoca tutt’altro che esigua, di duemila lire; anche lui lasciava questo mondo il 9 novembre 1900, dopo due anni trascorsi completamente paralizzato nel fisico, anni di sofferenze condivise in silenzio anche dalla sorella, a molti dei cui scritti aveva concesso, quando era stato Censore Delegato dell’Archidiocesi, il nihil obstat per la stampa.

Ma le sofferenze maggiori dovevano ancora venire. Il 20 luglio 1903 moriva il Pontefice Leone XIII, e il 4 agosto il Conclave eleggeva il Patriarca di Venezia Giuseppe Melchiorre Sarto, che prese il nome di Pio X, oggi santo. Il nuovo Papa aveva, sì, benedetto l’iniziativa di una raccolta di offerte a favore della Propagazione della Fede e della Santa Infanzia, le «Stelle Viventi», che Elena aveva promosso, con l’appoggio di vescovi e di altri personaggi del clero secolare e regolare; tuttavia, nello svolgimento della sua missione di Pontefice, per altro destinata a segnare positivamente la vita della Chiesa, non proseguì la promozione del culto dello Spirito Santo curata dal suo predecessore. Il 20 luglio 1904 moriva Mons. Nicola Ghilardi, l’arcivescovo che aveva imposto l’abito a Elena e alle sue prime compagne, e il 25 marzo dell’anno dopo faceva il suo ingresso solenne in Lucca il suo successore, Mons. Benedetto Lorenzelli. Il nuovo presule non aveva alle spalle nessuna esperienza pastorale; proveniva dalla diplomazia pontificia col titolo di Arcivescovo di Sardi, ed era Nunzio Apostolico in Francia quando, il 30 luglio 1904, ci fu la fine del ralliement e la rottura delle relazioni diplomatiche. Anziché essere inviato in un’altra nunziatura, il 25 ottobre era stato destinato alla sede arcivescovile lucchese, resasi vacante il 20 luglio. Questa serie di circostanze fece sì che, fra i lucchesi, si diffondesse anche a livello popolare la «sensazione» che il Lorenzelli fosse stato fatto Arcivescovo di Lucca «per punizione», e questo non favorì una «buona accoglienza» da parte dei fedeli. La sensazione si acuì quando, il 15 aprile 1907, il presule fu fatto cardinale, perché Lucca non aveva più un cardinale a capo della diocesi dal XVIII secolo, quando Mons. Orazio Filippo Spada, vescovo di Lucca dal 1704 al 1714, era divenuto cardinale nel 1706; la porpora concessa a Mons. Lorenzelli era sembrata a molti, quindi, quasi un «contentino».

Appena insediatosi in diocesi, il nuovo arcivescovo iniziò sùbito l’opera di «svecchiamento» delle strutture diocesane, voluta anche dal Papa. Se fu opportuna la soppressione di realtà ormai obsolete, di quest’opera fecero le spese anche istituzioni prestigiose, come il Decanato di S. Michele, da cui dipendeva anche un istituto teologico, che Mons. Lorenzelli fuse, d’autorità, col Seminario Arcivescovile, ristrutturato da lui sul modello dei seminari romani. Fu chiusa anche la Pia Casa dei Chierici Poveri, che pure era solo un convitto, senza nessun «insegnamento aggiuntivo», sopravvissuto cinque anni alla scomparsa del suo fondatore, il canonico Almerico Guerra. Ma la «scure» dell’arcivescovo si calò, ben presto, anche su suor Elena Guerra, quasi a «concretizzare» l’offerta a «vittima per il Papa», fatta da lei nel lontano 1870. Tutto ebbe inizio nel 1905, con diverse accuse, rivolte da tre giovani suore contro la Madre Fondatrice, fino ad allora Superiora senza scadenza di mandato. Le accuse fatte arrivare all’Arcivescovo erano le seguenti: dilapidamento del patrimonio dell’istituto con spese superflue, contrazione incontrollata di debiti, trascuratezza nel governo della congregazione per comporre i suoi libri di devozione, trascuratezza anche delle suore malate, e, infine, svanimento della memoria a causa dell’età, anche se, in realtà, suor Elena non era affatto «vecchissima», avendo soltanto 70 anni, compiuti da pochi mesi. Le accuse «economiche» si rivelarono completamente infondate, quando suor Elena presentò il bilancio della sua gestione dell’istituto; anzi, proprio la vendita dei libri scritti da lei aveva non solo consentito il pareggio, ma anche fornito un attivo non trascurabile. Quanto alle altre accuse, furono smentite dalle testimonianze, rese anni dopo dalle suore nell’inchiesta per l’introduzione della causa di beatificazione, tranne, secondo alcune, quella riguardante la memoria; ma, a detta anche delle medesime, sarebbe bastato affiancare alla Superiora una Vicaria più giovane, non prendere i provvedimenti, veramente pesanti, che invece furono presi dall’autorità ecclesiastica lucchese. In breve, il 20 settembre 1906, il Vicario Generale, mons. Domenico Fanucchi, vestito degli abiti prelatizi, davanti alle suore riunite, pronunciò quanto segue: che Suor Elena Guerra «ha rinunziato» al suo ufficio di Superiora, e che «nuovamente rinunzia di sua spontanea volontà», indottavi «dal peso degli anni». Dopo questo Suor Elena dovette ripetere la sua rinuncia, chiedere perdono per le mancanze commesse nei 25 anni del suo governo, e ricevere dal Vicario una «penitenza». Nell’atto della cosiddetta «rinuncia» le era conservato il titolo di «Madre Fondatrice», e di «Superiora Onoraria»; se questi titoli avessero avuto un significato reale, la rinuncia, anche se forzata, al governo della congregazione avrebbe potuto perfino avere un risvolto positivo, lasciando a Elena il tempo di dedicare più ore alla preghiera e allo studio, di scrivere libri, e di consigliare spiritualmente le consorelle. Invece, il provvedimento fu accompagnato da imposizioni ancora più drastiche: divieto di pubblicare nuovi libri, di ricevere suore nella propria camera, controllo di tutta la sua corrispondenza, e, in parlatorio, obbligo della presenza di una suora «ascoltatrice»; suora, che un’ex-allieva della scuola, Ida Squaglia, che pochi anni dopo avrebbe sposato uno dei nipoti di Elena, il farmacista Giulio, definiva «carabiniera». I parenti, quasi gli unici ammessi ai colloqui, per sfuggire a quello che, per loro, era un «immischiarsi negli affari di famiglia», escogitarono uno stratagemma: coi pretesti più «fantasiosi», chiedevano udienza solo nelle ore del mattino, quando le suore «colte» erano tutte impegnate con la scuola, e parlavano in francese.

La durezza di questi provvedimenti ha fatto sospettare a storici recenti che, dietro alle accuse «dichiarate», si nascondessero dei sospetti di mancanze più gravi: per esempio, alcuni hanno ipotizzato accuse di «Modernismo», ma quest’ipotesi è smentita proprio da una lettera di Elena a Mons. Volpi, in cui chiedeva al vescovo di fare, letteralmente, «un Triduo allo Spirito Santo in riparazione del Modernismo». Senza contare un «anacronismo»: i provvedimenti contro Elena precedettero di parecchi mesi il decreto del Sant’Uffizio Lamentabili, e di quasi un anno l’enciclica Pascendi. Verosimilmente l’ipotesi deriva da un equivoco verbale, causato da chi pretende oggi di «rivalutare» il Modernismo, facendolo apparire come un’«anticipazione» del Concilio Vaticano II, e non, come era veramente, la pretesa di mettere d’accordo il Cristianesimo con le cosiddette «filosofie moderne», come l’idealismo, lo storicismo, il positivismo, il marxismo, il darwinismo, l’attualismo e così via. Un’altra ipotesi possibile è che Mons. Lorenzelli, per la sua provenienza dalla diplomazia pontificia, fosse venuto a conoscenza, da ex-colleghi, del «pentecostalismo» protestante, che in quegli anni stava cominciando a svilupparsi negli Stati Uniti, e ci vedesse qualcosa di «simile» nella devozione allo Spirito Santo promossa da Elena; ma, se così fosse, l’equivoco sarebbe madornale, perché nessuna, fra le sue iniziative, aveva qualcosa in comune con le pratiche, considerate allora come minimo «esotiche», per non dire eterodosse, dei gruppi che si formavano oltre oceano, anzi erano tutte conformi al Magistero di Leone XIII. Insomma, il «perché» di tanta severità rimane ancor oggi sconosciuto. Un’altra occasione di sofferenza le venne «dall’esterno»: la morte, nel 1908, del fratello minore, il notaio Guido, a causa di gravi conseguenze del diabete, malattia, all’epoca, priva di una terapia specifica.

Col passar del tempo, le «sanzioni» si attenuarono lentamente, ma ebbero gravi conseguenze sulla salute di Suor Elena. Già agli inizi del 1907 si ammalò gravemente di broncopolmonite, tanto da trovarsi in pericolo di vita; in questa occasione l’Arcivescovo andò a trovarla personalmente, chiedendole se avesse qualche richiesta da fargli. Elena, pur soffrendo pesantemente per i provvedimenti a suo carico che il presule medesimo aveva preso nei suoi confronti, non chiese niente per sé, ma disse solo: «Sì, che voglia bene alla mia Congregazione». Un conforto le arrivò il 29 settembre 1909, quando ci fu la prima elezione di una Madre Superiora, lasciata al libero voto delle suore, e non imposta dall’autorità diocesana, come era avvenuto, nel triennio precedente, per Suor Maria Valiensi: fu eletta, infatti, Suor Elisa Pieri, una delle suore rimaste «fedeli» alla Fondatrice. Il 6 aprile 1910 il Card. Lorenzelli rinunciò alla carica di Arcivescovo di Lucca, ufficialmente per motivi di salute, e si trasferì a Roma, dove ricoprì, negli anni successivi, importanti incarichi nella Curia Pontificia, fino alla sua morte, avvenuta il 5 settembre 1915. L’8 aprile 1910, solo due giorni dopo le sue dimissioni, inviava da Roma a Suor Elisa una lettera piena di lodi alla congregazione, contenente anche un «elogio principalissimo alla Venerata Madre Elena Guerra, Fondatrice». Oltre a questa lettera ci sono anche testimonianze, da cui risulta che il Cardinale si era, in qualche modo, ricreduto a proposito dei gravi provvedimenti da lui stesso presi nei confronti di Suor Elena. Finalmente, il 6 marzo 1911 la Santa Sede concedeva il Decretum laudis, dando l’approvazione alla Congregazione delle Oblate dello Spirito Santo.

Gli ultimi anni di Suor Elena trascorsero nel ritiro e nella preghiera, mentre la sua salute peggiorava sempre di più. Nel novembre del 1913 si ammalò nuovamente di broncopolmonite, e non si riprese mai più veramente, finché, verso la fine di marzo dell’anno successivo, peggiorò ancora, al punto che il medico le proibì di uscire di camera, pur permettendole di alzarsi per breve tempo. Non ostante ciò, si sforzò di compiere, nella seconda settimana del mese successivo, tutte le «devozioni» della Settimana Santa, che le sue forze, ormai allo stremo, le consentivano. Si arrivò così all’11 aprile, Sabato Santo. All’epoca — prima della restaurazione della Liturgia della Notte Pasquale, compiuta negli anni 1950 dal venerabile Pio XII — lo scioglimento delle campane per l’annuncio della Resurrezione avveniva a mezzogiorno del Sabato Santo, ed era usanza, almeno nella diocesi lucchese, di baciare la terra, che aveva «restituito» il corpo del Salvatore. Quella mattina Elena chiese d’essere alzata dal letto e vestita con il suo abito di Oblata dello Spirito Santo. Anche se, pur vestita, aveva dovuto sdraiarsi di nuovo, al suono delle campane si fece alzare, si inginocchiò a baciare la terra, e non si rialzò più; così, mentre le chiese di tutta Lucca festeggiavano la Risurrezione, la beata Elena volava al Cielo. Undici anni prima, l’11 aprile 1903, Sabato Santo anche in quell’anno, era volata al Cielo la sua antica alunna, Santa Gemma Galgani, e così, per la seconda volta in pochi anni, le campane non sonarono a morto.

Subito dopo la morte di Suor Elena Guerra, si sparse, a Lucca e negli altri luoghi in cui c’erano Case delle Oblate dello Spirito Santo, la fama della sua santità; nel 1928 le sue spoglie furono traslate dal cimitero urbano alla cappella della casa madre in piazza S. Agostino; al processo diocesano, iniziato il 23 giugno 1930, furono registrate testimonianze di conversioni e guarigioni ottenute per intercessione della Serva di Dio. Nel 1953 fu pubblicato il decreto sull’eroicità delle virtù, che le conferiva il titolo di «venerabile», e il 26 aprile 1959 il papa S. Giovanni XXIII la proclamava beata, definendola «nei nostri tempi l’apostola della devozione dello Spirito Santo». Poco tempo prima della beatificazione era stata restaurata e riaperta al culto la chiesa di S. Agostino, di fronte alla casa madre, e affidata alle suore Oblate dello Spirito Santo; sotto l’altar maggiore ricostruito fu posta l’urna col corpo della beata. È attualmente in corso il processo per la sua canonizzazione, e un accurato riesame teologico di tutti i suoi scritti, per una possibile proclamazione a Dottore della Chiesa.

Giulio Dante Guerra